Dott. Claudio Gnesutta sulla crisi finanziaria

(23 maggio 2012)

<< In parole povere, la finanza non fa altro che spostare montagne di capitali (di soldi), da chi detiene un risparmio a chi vuole finanziare con quei fondi la propria attività produttiva…>>

  • Esiste un rapporto di potere finanziario tra stati deboli e stati forti?
  • Crisi: “Mano Invisibile” del mercato o meccanismo ben oleato?
  • La crisi ha quindi dei responsabili?
  • Chi perde e chi vince in una crisi?
  • Quale strada futura per i mercati finanziari?

Ne parliamo con il dott. Claudio Gnesutta, docente ordinario di  “Economia Politica” e “Politiche economiche e scenari macroeconomici”, presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”; inoltre, è membro della redazione di Sbilanciamoci, un gruppo emergente di informazione alternativa nell’ambito economico; un innovativo portale di informazione economica e sociale, che ha come fine “sapere tutto il possibile sul sistema economico nel quale viviamo, progettare tutto il possibile del sistema economico nel quale vorremmo vivere” [cit.].

Dott. Gnesutta, qual è teoricamente la funzione dei mercati finanziari?
La finanza (banche e istituti finanziari) svolge una funzione piuttosto semplice: raccoglie fondi liquidi per investirli in attività meno liquide. Da un lato acquisisce liquidità da chi  possiede un piccolo o grande patrimonio e ricerca una maggiore redditività, dall’altro, concede tali fondi (questa liquidità) a chi ne ha bisogno per i propri investimenti. Si tenga conto che la raccolta e la concessione a credito si fondano su una promessa: i primi si aspettano di ottenere redditività dai secondi, che sperano di ottenerne in futuro dalla loro attività produttiva. Se guardiamo a questo meccanismo risulta evidente che la finanza è lo strumento con il quale si riesce a concentrare capitali liquidi, il cui impiego diretto nella produzione non ha una prospettiva di sufficiente redditività, per destinarli agli investimenti produttivi dai quali si ritiene di poter trarre maggior profitto.

In parole povere, la finanza non fa altro che spostare montagne di capitali (di soldi), da chi detiene un risparmio a chi vuole finanziare con quei fondi la propria attività produttiva.
Con riferimento alla realtà attuale, e con una certa forzatura, si può dire che l’attuale finanza globale raccoglie fondi presso le società occidentali per trasferirle, tramite le imprese transnazionali, all’espansione della “fabbrica del mondo” asiatica.
Questa può essere considerata la funzione fondamentale della finanza; ma per svolgere efficacemente il suo ruolo, essa deve attuare una continua trasformazione di attività finanziarie, ovvero deve trasformare titoli ad alto rendimento e ad alto rischio in titoli a più basso rendimento e più basso rischio per poter acquisire i fondi anche di coloro più avversi al rischio (per esempio i piccoli risparmiatori).

In qualche modo esiste una relazione tra finanza e società di una Nazione?
Ogni società storica ha una sua finanza. Questa, in senso lato, costituisce il modo in cui la società (spesso una parte di essa) gestisce il proprio futuro. Oggi, le risorse disponibili al singolo cittadino hanno valore nella misura in cui si ritiene che garantiscano questo flusso di redditi futuri. Tanto maggiore è il flusso atteso, tanto maggiore è il valore di queste risorse. La gestione di come garantire il futuro economico dei possessori di ricchezza è compito strutturale della finanza. Si è infatti diversamente “ricchi” a seconda della diversa collezione di strumenti (case, titoli, beni preziosi) di cui si dispone e il cui valore esprime una diversa promessa di un futuro più abbondante e più sicuro.

Se questo legame esiste, resta costante o c’è la possibilità che l’una si strutturi soggiogata all’altra, venendosi così a creare una sorta di egemonia?
Gli esempi a questo riguardo possono essere vari. Mi limito a uno solo, che discende da un’interpretazione di Arrighi. Nella storia, i Paesi che hanno acquisito la leadership mondiale sono passati attraverso successive fasi di dominanza produttiva: da un’egemonia nel commercio internazionale, a un’egemonia nell’industria, per approdare ad una centralità finanziaria che ha rappresentato il loro “autunno”. Tale spiegazione indicherebbe che esiste un legame forte tra finanza, produzione e società, legame che si ristruttura continuamente per fronteggiare le trasformazioni che si registrano nell’ambiente (globale) nel quale la leadership mondiale si esprime.
Limitiamo la considerazione all’attuale egemonia finanziaria degli Stati Uniti: l’industria americana ha perso competitività internazionale, perciò i capitali liquidi disponibili, cercano migliori alternative redditizie altrove, tramite le imprese transazionali, sostenute da un apparato finanziario che è impegnato nel  raccogliere fondi su tutto lo scacchiere mondiale.

Molti governi, compreso il governo Monti e il precedente governo Berlusconi, privatizzano e liberalizzano quanto più è possibile. Ma questo accade fin dagli anni ’80, ai tempi della Thatcher e di R. W. Reagan.
Dagli anni Ottanta – è corretto il riferimento alla Thatcher e Reagan – è stata costruita la convinzione che l’unica realtà istituzionale in grado di garantire il progresso sociale deve essere quella fondata su strutture di mercato. Questo è il  frutto del notevole sforzo di convincimento di ampi settori della cultura e del  mondo dell’informazione, il cui risultato è stato smantellare e sostituire il principio precedente: “i bisogni sociali trovano nello stato di welfare la loro soluzione”.

Forse i politici hanno creduto cecamente nel neoliberismo. Oppure i Governi, di un “certo orientamento”, hanno degli interessi nel lasciare la propria Nazione nelle mani del libero mercato?
Dagli anni Settanta una ridefinizione della qualità della vita e della qualità del lavoro richiedevano una ristrutturazione profonda dei meccanismi economici e sociali nei paesi occidentali, risposta a questa difficoltà è stata la scelta politica di liberalizzare i propri movimenti di capitale con l’estero e privatizzando e deregolamentando l’attività economica interna. Questo processo può risultare accettabile solo se è sostenuto dal consenso dei soggetti che lo subiscono. È un’operazione culturale che nasce nelle università, si propaga nelle istituzioni, si incardina nelle istituzionale politiche e sindacali nazionali, si estende alle strutture dell’informazione, giornali e televisioni. È la costruzione di quel senso comune di cui i politici si fanno garanti nei confronti dei loro elettori.

La crisi: un tragico incidente causato da una mano invisibile smithiana o un meccanismo ben oleato nel corso degli anni?
Direi che, in questa crisi la “mano invisibile smithiana” si è dimostrata largamente fallimentare. Che non venga mostrata la faccia, è cosa nota.. questi soggetti sono così grossi e potenti, che per governarli al bene comune non basta una mano piccola, come quella prevista da Smith.
Si tratta certamente una struttura di dimensioni enormi, che permette alle istituzioni finanziarie di poter correre velocemente “nella nebbia”. Esse riescono a “realizzare” ampi profitti “attesi”, adottando comportamenti calibrati in un’ottica finanziaria di breve periodo, ma risultano del tutto disarmate di fronte agli shock che  generano le stesse istituzioni finanziarie. Più che ben oliato, risulta un meccanismo instabile, in cui le oscillazioni sono dovute all’affermarsi di “climi” di ottimismo o pessimismo (spesso non fondati),  che le cose vadano bene o che le cose vadano male.

Questa crisi economica globale ha dei responsabili?
La responsabilità della crisi è tanto diffusa che non c’è nessuno che si sente responsabile: ognuno ha fatto il suo “lavoro”.  Se si cercano le cause della crisi,  esse vanno individuate in “coloro”  che hanno  malfatto. L’operare di questi malfattori ha avuto l’effetto di mettere in moto un processo inatteso, che è sfuggito loro di mano, producendo una crisi sistemica che si è rapidamente diffusa in maniera inattesa oltre i confini della finanza: dalla crisi finanziaria, alla crisi produttiva, alla crisi dei debiti pubblici, alla crisi della politica (incapace di intervenire), alla crisi della democrazia (da mettere ai margini per far posto al processo “tecnico” di risanamento).  Ma questa non è un’interpretazione a carattere giustificativo. E’ un preciso modo di organizzare la società,  un modo che assoggetta i bisogni sociali alle “pure” forze di mercato.

Nella crisi tutti si impoveriscono o qualcuno guadagna? Se così fosse, gli speculatori continueranno a spremere l’economia reale degli Stati, continuando a gonfiare i profitti dei propri istituti finanziari.
In una crisi vi sono grandi perdite e qualcuno le deve subire; ma vi possono essere anche grandi guadagni di cui qualcuno ne può godere; è possibile distinguere chi sono coloro che hanno guadagnato e coloro che hanno perso.
Nella finanza, i guadagni e le perdite di valore esprimono semplicemente la “illusione” o la “disillusione” circa attese, che i proprietari di ricchezza avevano sul futuro; e questo può avere qualche rilievo. Gli effettivi guadagni e effettive perdite sono possibili solo se, sulla base di valutazioni eccessivamente pessimistiche, qualcuno si disfa delle sue attività cedendole ad altri meno pessimisti poiché più “informati”.  In questo caso, la ricchezza si sposta dai primi ai secondi e se questi controllano meglio il mercato ne risulta favorita la concentrazione della ricchezza nelle mani dei più “informati”.

Chi ha perso invece da questa crisi?
La crisi finanziaria si è tradotta in crisi produttiva; una crisi riguardante la ricchezza si è trasformata in una crisi dei produttori (imprese e lavoratori): il tentativo di ripristinare condizioni di sicurezza per la rendita finanziaria sulla ricchezza del passato ha generato perdite di occupazione e caduta dei salari. Qui le perdite sono evidenti, notevoli, drammatiche, concentrate su soggetti che per lo più con la finanza non hanno molto a che fare. La crisi finanziaria e la crisi produttiva hanno prodotto inoltre una crisi fiscale, una crisi del debito pubblico, una crisi della politica economica. La richiesta di un pronto e completo risanamento dei conti pubblici (nell’imposizione tedesca della Merkel), ha costretto la politica economica ad interventi controcorrente, con pesanti politiche fiscali che sono ricadute su ampi settori sociali in tutta Europa.

Sarà questa la strada del declino per gli stessi mercati finanziari?
Una gestione “tecnica” della politica economica pone il risanamento finanziario come obiettivo primario; considera invece residuali le iniziative di contenimento delle sofferenze sociali generate non solo dalla crisi, ma anche dalle modalità adottate per risolverla.
La cosa preoccupante, è che si ripeta lo stesso meccanismo finanziario la cui implosione ha prodotto l’attuale situazione pericolosa dal punto di vista sociale e democratico; scelta che è premonitrice di altre più drammatiche crisi.
Sarà allora possibile sostenere ancora che la responsabilità è di tutti e quindi di nessuno?

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